L’esperienza del profugato non fu vissuta allo stesso modo dai vari gruppi di esuli giunti nel parmense. Le circostanze della guerra accentuarono le differenze di classe: i nuclei familiari più agiati, pur subendo un notevole peggioramento del proprio tenore di vita rispetto ai tempi di pace, evitarono i problemi connessi alla ricerca di un alloggio e alla fame. Molti di loro furono ospitati da privati che, rispondendo agli appelli diramati dalla Prefettura, si offrirono di accoglierli nelle proprie abitazioni o misero a loro disposizione residenze estive e immobili sfitti.
Per gli sfollati appartenenti alle classi popolari l’esperienza del profugato si rivelò, invece, molto più dura. Dopo gli slanci patriottici della prima accoglienza, la prospettiva di una lunga permanenza nei territori ospitanti e, soprattutto, il rapido moltiplicarsi dei nuovi arrivi nelle settimane successive alla rotta di Caporetto contribuirono a complicare i rapporti tra le comunità indigene e i gruppi di rifugiati delle classi meno abbienti.
Illustrazione di Chiara Morselli (Associazione L’Abc)
Questi ultimi dovettero fare i conti con i problemi dell’approvvigionamento e della vita in comune nelle colonie. Nella maggior parte dei casi si trattava, infatti, di locali piccoli e angusti, posti al pianterreno o addirittura interrati, nei quali i profughi vivevano in promiscuità. La maggior parte degli alloggi era poi priva di latrine e di acqua corrente, con comprensibili problemi di carattere igienico-sanitario.
Il razionamento alimentare e le ristrettezze del periodo bellico crearono, inoltre, forti tensioni tra i profughi e i parmigiani che, in una sorta di “guerra tra poveri”, non sempre accettavano di buon grado di dividere con i “forestieri” le poche risorse alimentari disponibili.
Da questo punto di vista, la scelta di preservare le reti di solidarietà delle comunità di origine dei profughi distribuendoli nelle colonie in base alle località di provenienza favorì indirettamente tra gli esuli processi di chiusura identitaria, contribuendo a rendere più complicato il loro inserimento nella società ospitante.
Sebbene non mancarono, soprattutto tra le frange più consapevoli, esempi riusciti di integrazione che videro i profughi partecipare attivamente alla vita culturale della città e farsi promotori di un certo dinamismo organizzativo, costituendo propri comitati e cooperative di consumo, nella maggior parte dei casi essi sperimentarono situazioni materiali ed esistenziali di profondo isolamento e marginalità, rimanendo di fatto elementi “estranei” rispetto alla società indigena.