I profughi non furono solo raccontati; provarono anche a raccontarsi. Alcuni esponenti della media-alta borghesia riuscirono, infatti, a ritagliarsi uno spazio pubblico sulla stampa locale, cercando in questa maniera di far sentire la propria voce.
Questi interventi avevano soprattutto l’obiettivo immediato di assicurare i lettori della natura dei propri sentimenti patriottici e giustificare il proprio status di sfollati, in risposta alle principali accuse che venivano mosse loro: dubbi sulla loro italianità e sospetti di essere scappati per codardia piuttosto che per necessità.
Anche con questo scopo, dal giugno 1918 apparve sulle colonne della “Gazzetta di Parma” la rubrica “La parola del profugo”, firmata da un tale professor Mastella, insegnante settantenne sfollato dal Veneto.
Nel suo primo intervento, il profugo tentava una sorta di reportage dal fronte, bollando i nemici austriaci con l’epiteto di «rapaci patatoni» e rassicurando i parmensi sul coraggio dei soldati italiani:
Quando alla viglia della presente offensiva io mi aggirava presso le ultime propaggini del Grappa e dell’altipiano d’Asiago, vidi cose che mi commossero, che mi entusiasmarono, e giunto a Parma dissi agli amici: “Niente paura! La vittoria sarà nostra!”. E come poteva io dubitarne, se vidi co’ miei occhi i nostri soldati dirigersi cantando verso le trincee?
Il professor Mastella chiudeva il suo pezzo rivolgendosi direttamente agli altri profughi:
O profughi in alto i cuori! Si, noi torneremo alle nostre case, o là dove le nostre case sorgevano, e ritemprati alla scuola del dolore, ameremo sempre più la grande e la piccola patria. Figli non degeneri dei Romani, ricordiamo che: “agere et pati fortia, Romanum est” [agire e sopportare con forza è proprio dei romani].
“La parola del profugo” continuò fino alla fine della guerra a commentare questioni politiche, ma anche a trattare argomenti quotidiani, inserendosi di fatto nella vita culturale parmense.
Illustrazione di Pietro Aimi (Associazione L’Abc)