La questione indubbiamente più problematica nel rapporto tra profughi e società ospitante restava quella del lavoro. A partire già dall’autunno 1917, per ridurre al minimo i sussidi, si cercò di favorire il collocamento al lavoro dei rifugiati.
Nella colonia di Villa Tonarelli a San Lazzaro Parmense i profughi vennero utilizzati per eseguire lavori di manutenzione e imbiancatura dello stabile, come cucinieri o per realizzare lavori sulle strade pubbliche, mentre i più istruiti furono impiegati nelle segreterie del Comitato e del Comune. Quasi completamente composto da profughe era anche il personale di servizio della Cucina di famiglia istituita su iniziativa del Comitato di provvedimento nel capoluogo, in alcuni locali del Regio Istituto di belle arti, per offrire pasti caldi agli sfollati di passaggio in città.
Profughe di Castello Tesino, cuoche all’interno della colonia di Cortile San Martino (Parma). Originale conservato presso la Biblioteca di Castel Tesino.
Richieste di manodopera specializzata da reclutarsi tra i profughi provenivano, del resto, dallo stesso Ministero dell’Interno: particolarmente richiesti risultavano boscaioli, carbonai, minatori, falegnami e meccanici.
Non sempre, tuttavia, i profughi si dimostrarono ben disposti a cogliere le opportunità di lavoro che venivano offerte loro.
Persino le fonti ufficiali lasciavano trasparire sottotraccia le criticità connesse con la spinosa questione del collocamento al lavoro degli esuli. Un esempio su tutti: in un opuscolo pubblicato nel 1918 dal Comitato di preparazione civile si notava come l’azione dell’Ufficio di collocamento «fu assai proficua e più ancora lo sarebbe stata se tra i profughi vi fosse maggior adattamento ad assumere funzioni e lavori anche di non completo gradimento».
Tale questione contribuì in modo determinante a suscitare sospetti e accese polemiche in una parte non trascurabile dell’opinione pubblica, propensa a credere che i rifugiati approfittassero della situazione per trascorrere qualche mese di ozio grazie ai sussidi.